L’amore come lode della donna amata, creatura angelicata la cui virtù eleva spiritualmente l’anima dell’innamorato, lascia il posto in Petrarca a una visione di stupefacente modernità: quella di un io che si interroga sul proprio amore con un’introspezione quasi psicanalitica, che ammira la donna nella sua bellezza “carnale” ma riconosce anche l’inesorabile tirannia del tempo, la vanitas vanitatum di biblica memoria. Con le 366 liriche del Canzoniere, suddivise idealmente nelle rime “in vita” e “in morte” di Laura, perfezionate e rivedute con il labor limae di decenni, l’aretino Francesco Petrarca non solo ha firmato uno dei capolavori della poesia italiana di tutti i tempi, ma ha anche raccolto un repertorio di espressioni poetiche che hanno attraversato i secoli, imprimendosi nella memoria dei suoi successori come degli studenti sui banchi di scuola. Chiare, fresche e dolci acque, Movesi il vecchierel canuto e bianco, Passer mai solitario in alcun tetto, Pace non trovo, e non ho da far guerra: la musicalità intrinseca di questi incipit celeberrimi ha ispirato non solo generazioni di poeti, a cominciare da Giovanni Boccaccio, ma anche di musicisti che ne hanno intonato le strofe, in quell’epoca aurea del madrigale italiano che ha il suo campione in Claudio Monteverdi.
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