L’Arditti Quartet rappresenta insieme sia l’eccezione sia la regola. L’eccezione perché è il caso quasi unico – pochissimi lo hanno seguito su questa medesima strada – di un quartetto d’archi che ha intenzionalmente ignorato il repertorio classico e romantico. Non che non lo abbiano voluto affrontare. Semplicemente Irvine Arditti e i suoi sodali hanno ritenuto che l’impegno di un interprete nato e formatosi nel ventesimo secolo dovesse essere per l’appunto quello di dare spazio alla musica dei suoi giorni, e non solo a quella di un passato via via sempre più lontano. Impresa non facile, ma che ha ottenuto esisti davvero sorprendenti. Sono centinaia le opere composte proprio per il Quartetto Arditti, e il loro stile ha influenzato i compositori al punto che molte innovazioni tecniche nella scrittura per due violini, viola e violoncello (e per quei singoli strumenti) sono state proprio il risultato dell’impegno per così dire coordinato tra compositori e quartetto. Eccoci quindi alla regola: fin dai tempi di Boccherini il quartetto d’archi ha in molti casi generato il suo stesso repertorio. Ed è appunto quello che è accaduto con l’Arditti, che del Secondo Quartetto di Ligeti, ad esempio, è stato il primo interprete, poi portando su cd tutta l’opera del compositore ungherese per quartetto e duo d’archi (Sony Classical). Guardare al recente passato, Berg e Ravel, è quindi coerente con questa impostazione, tanto più che il dibattito su dove sia nato il Novecento musicale, se a Parigi o a Vienna, è ancora aperto.